Quasi contemporaneamente alla specifica origine dello Zero, le autorità giapponesi richiesero all’industria un caccia dotato di prestazioni più “occidentali”, ovvero dotato di velocità e armamento pesante, piuttosto che autonomia e maneggevolezza. Queste diedero vita al Mitsubishi J2M Raiden (雷電, letteralmente “fulmine”).
Il progetto fu perseguitato dalla sfortuna: benchè sulla carta l’aereo fosse assai valido, numerose componenti rivelarono difetti che andavano eliminati prima della produzione di massa; i principali riguardavano il carrello, il motore e il tettuccio che secondo i piloti offriva una troppo scarsa visibilità.
La produzione iniziò solo nel 1943 ed in totale furono costruiti meno di 500 esemplari del Raiden, detto Jack; quasi tutti vennero usati nella difesa del territorio giapponese dagli attacchi dei quadrimotore alleati, compito in cui se ne poteva sfruttare il pesante armamento.
Il Mitsubishi J2M è un monoplano monomotore ad ala bassa, carrello retrattile e motore raffreddato ad aria. Nel codice alleato era chiamato Frank.
Sviluppato dalla Mitsubishi Jūkōgyō nei primi anni Quaranta sotto la guida del celebre ingegnere Jirō Horikoshi – già progettista del leggendario A6M Zero – il Raiden incarnava una filosofia progettuale radicalmente diversa rispetto ai tradizionali caccia giapponesi. Mentre questi ultimi privilegiavano la leggerezza, l’agilità e l’autonomia per supportare operazioni offensive a lungo raggio, il J2M fu concepito come un “purosangue” dell’intercettazione: un velivolo compatto, potente e veloce, ottimizzato per salire rapidamente in quota e ingaggiare i bombardieri nemici con un armamento pesante.
Origini del Progetto
Il progetto del Mitsubishi J2M Raiden affonda le sue radici in una lungimirante valutazione strategica della Marina Imperiale Giapponese. Nel settembre 1939, mentre l’attenzione mondiale si concentrava sull’esplosione del conflitto in Europa, i vertici navali nipponici emisero la specifica 14-Shi, un documento che avrebbe definito i contorni di uno dei più ambiziosi progetti di intercettore della Seconda Guerra Mondiale.
La specifica delineava un quadro di requisiti estremamente sfidanti, riflettendo una chiara comprensione delle future minacce che il Giappone avrebbe potuto dover affrontare. Il nuovo velivolo doveva essere progettato specificamente per la difesa aerea del territorio insulare interno, con l’obiettivo primario di contrastare potenziali attacchi di bombardamento da parte di aviazioni militari nemiche. Era una visione strategica che anticipava di anni l’effettiva materializzazione di tale minaccia, dimostrando una capacità di pianificazione a lungo termine spesso sottovalutata nelle analisi del pensiero militare giapponese.
Le prestazioni richieste erano di una ambizione quasi temeraria per l’epoca. Il velivolo doveva raggiungere una velocità massima di 600 km/h a una quota di 6.000 metri, un traguardo che lo avrebbe collocato tra i caccia più veloci del mondo. Ma la velocità non era l’unico parametro cruciale: la quota operativa di 6.000 metri doveva essere raggiungibile in meno di 5 minuti e 30 secondi, una prestazione di salita che avrebbe permesso intercettazioni rapide ed efficaci. L’autonomia richiesta era di 45 minuti a piena potenza, un compromesso che rifletteva la natura prettamente difensiva del ruolo assegnato al velivolo.
Anche le caratteristiche operative al suolo erano state attentamente studiate. In condizioni di sovraccarico, la distanza per il decollo non doveva superare i 985 metri, mentre la velocità di atterraggio doveva rimanere sotto i 130 km/h. Questi parametri testimoniavano la volontà di rendere il nuovo intercettore operativo anche da aeroporti di dimensioni limitate, una considerazione importante per la difesa di un arcipelago come quello giapponese.
L’armamento previsto manteneva una certa continuità con i caccia esistenti, adottando la stessa configurazione dell’A6M2 Zero: due mitragliatrici Type 89 calibro 7,7 mm abbinate a due cannoncini aeronautici Type 99 calibro 20 mm. La protezione del pilota era limitata a una piastra corazzata collocata dietro al sedile, riflettendo ancora l’influenza della filosofia progettuale tradizionale giapponese che privilegiava la leggerezza strutturale.
La responsabilità di trasformare queste ambizioni specifiche in una macchina volante fu affidata alla Mitsubishi, che rispose alla sfida assegnando il progetto a Jirō Horikoshi. La scelta non era casuale: Horikoshi aveva già dimostrato il suo genio progettuale con l’A6M Zero, e rappresentava quanto di meglio l’industria aeronautica giapponese potesse offrire in termini di competenza tecnica e visione innovativa.
Tuttavia, il percorso di sviluppo si rivelò fin dall’inizio più complesso del previsto. Horikoshi aveva iniziato a lavorare su concetti simili già dall’ottobre 1938, in seguito a incontri preliminari con le autorità della Marina Imperiale. Ma le priorità assegnate allo sviluppo e alla produzione dello Zero causarono significativi ritardi nel programma del nuovo intercettore, anticipando quelle che sarebbero state le sfide ricorrenti della produzione aeronautica giapponese durante tutto il conflitto: la necessità di bilanciare risorse limitate tra progetti multipli e spesso concorrenti.
L’approccio di Jirō Horikoshi al progetto del J2M Raiden rappresentò una significativa evoluzione rispetto alla sua precedente esperienza con l’A6M Zero. Se lo Zero incarnava l’ideale giapponese del caccia agile e versatile, ottimizzato per il combattimento manovrato e le missioni a lungo raggio, il Raiden doveva essere qualcosa di completamente diverso: un “purosangue” dell’intercettazione, ottimizzato per prestazioni specifiche anche a costo di sacrificare altre qualità.
Il cuore della concezione di Horikoshi era la creazione di un velivolo estremamente compatto e aerodinamicamente raffinato. Il J2M si presentava come un monoposto monoplano ad ala bassa con carrello d’atterraggio retrattile, caratterizzato soprattutto dall’adozione di un potente motore radiale Mitsubishi Kasei sovradimensionato rispetto alle dimensioni della cellula. Questa scelta progettuale, audace quanto problematica, sarebbe diventata il tratto distintivo del Raiden e, al tempo stesso, la fonte dei suoi principali problemi operativi.
Il motore Kasei era racchiuso in un cofano lungo e strettamente sagomato, raffreddato mediante una ventola di aspirazione e collegato all’elica attraverso un lungo albero di trasmissione. Questa configurazione permetteva di ottimizzare le linee aerodinamiche della fusoliera anteriore, ma creava immediatamente un problema critico: la visibilità anteriore del pilota risultava gravemente compromessa dall’imponente massa del gruppo motopropulsore.
Il problema della visibilità non era meramente secondario, ma toccava il cuore stesso dell’efficacia operativa del velivolo. Un intercettore che non permetteva al pilota di vedere chiaramente in avanti era un paradosso tecnico che Horikoshi e il suo team dovettero affrontare durante tutto lo sviluppo del progetto. La soluzione sarebbe arrivata solo durante la produzione in serie, con l’introduzione di un cupolino rialzato che migliorava parzialmente la situazione senza però risolvere completamente il problema.
L’approccio di Horikoshi al J2M dimostrava una maturità progettuale che andava oltre la sua precedente esperienza. Mentre lo Zero era nato dall’applicazione di principi consolidati portati all’eccellenza, il Raiden rappresentava una sperimentazione più audace, un tentativo di spingere la tecnologia aeronautica giapponese verso territori inesplorati. Era un progetto che richiedeva non solo competenza tecnica, ma anche visione e coraggio: la capacità di immaginare soluzioni inedite per sfide inedite.
Sviluppo
Il percorso di sviluppo del Mitsubishi J2M Raiden si rivelò significativamente più accidentato e complesso di quanto inizialmente previsto, riflettendo sia la natura innovativa del progetto sia le crescenti pressioni che caratterizzavano l’industria aeronautica giapponese durante il conflitto mondiale.
I lavori effettivi iniziarono nel 1940, ma fin dall’inizio il programma si trovò a dover competere per risorse e priorità con altri progetti della Mitsubishi, primo fra tutti la produzione in serie dell’A6M Zero. L’enorme successo dello Zero nei primi anni della guerra nel Pacifico aveva generato una domanda pressante da parte delle forze armate, assorbendo gran parte delle capacità produttive e progettuali dell’azienda. Questa situazione comportò inevitabili ritardi nel programma del Raiden, con la data del primo volo che slittò fino al 20 marzo 1942.
Quando finalmente il prototipo del J2M1 si alzò in volo, emersero immediatamente i primi problemi critici. I piloti collaudatori protestarono vivacemente contro le difficoltà di visibilità attraverso il parabrezza, un elemento che era stato progettato con forme arrotondate per ottimizzare l’aerodinamica ma che produceva distorsioni ottiche significative. Questa caratteristica, pur contribuendo all’efficienza aerodinamica del velivolo, comprometteva gravemente la capacità del pilota di valutare correttamente distanze e posizioni relative, un aspetto cruciale per un intercettore destinato a ingaggiare bersagli nemici.
Le prestazioni di salita, parametro fondamentale per un intercettore, si rivelarono deludenti. Il tempo necessario per raggiungere i 6.000 metri di quota risultò essere di 7,8 minuti, molto superiore ai 5 minuti e 30 secondi richiesti dalle specifiche originali. Anche la velocità massima si attestò circa venti chilometri orari sotto le aspettative, evidenziando che l’ottimizzazione aerodinamica, pur notevole, non era stata sufficiente a compensare completamente il peso e la complessità del gruppo motopropulsore.
Nonostante questi problemi, i tre prototipi dimostrarono almeno alcune qualità positive, in particolare buone caratteristiche di manovra che suggerivano il potenziale intrinseco del progetto. Tuttavia, l’entità dei problemi riscontrati portò a una decisione drastica: invece di tentare correzioni incrementali, si optò per una riprogettazione radicale dell’intero velivolo.
Questa scelta, pur comportando ulteriori ritardi significativi, dimostrava la determinazione dei progettisti a non scendere a compromessi sulla qualità finale del prodotto. Il riconoscimento che i problemi erano strutturali piuttosto che superficiali richiedeva il coraggio di ripartire sostanzialmente da zero, sacrificando tempo prezioso per ottenere un risultato superiore.
La riprogettazione si concentrò su diversi aspetti critici. Il problema della visibilità venne affrontato attraverso modifiche al cupolino e al parabrezza, mentre l’ottimizzazione aerodinamica fu ulteriormente raffinata per migliorare le prestazioni di velocità e salita. Il sistema di raffreddamento del motore fu rivisto per affrontare i problemi di surriscaldamento che avevano caratterizzato i primi prototipi.
Il risultato di questo sforzo fu il J2M2, la prima versione di produzione che apparve nell’autunno 1942. Questo modello incorporava le lezioni apprese dai prototipi iniziali e rappresentava un significativo passo avanti rispetto ai J2M1. Tuttavia, come si sarebbe presto scoperto, molti dei problemi fondamentali del progetto non erano stati completamente risolti, ma semplicemente attenuati.
Il lungo periodo di sviluppo del Raiden ebbe conseguenze che andavano oltre i semplici ritardi temporali. Mentre Horikoshi e il suo team lavoravano per perfezionare il loro intercettore, il contesto strategico del conflitto stava evolvendo rapidamente. Le priorità della Marina Imperiale stavano cambiando, e nuove minacce stavano emergendo che avrebbero richiesto risposte diverse da quelle per cui il J2M era stato originariamente concepito.
Questa evoluzione del contesto bellico avrebbe influenzato profondamente il destino operativo del Raiden, condizionando non solo il suo impiego tattico ma anche le decisioni produttive che ne determinarono la diffusione relativamente limitata rispetto ad altri caccia giapponesi del periodo.
Caratteristiche Tecniche
Il Mitsubishi J2M Raiden rappresentava un concentrato di innovazioni tecniche che lo distinguevano nettamente dai caccia giapponesi contemporanei. La filosofia progettuale sottostante mirava a creare un intercettore “puro”, ottimizzato per prestazioni specifiche anche a costo di sacrificare la versatilità tipica di altri velivoli dell’epoca.
La caratteristica più evidente del Raiden era la sua configurazione estremamente compatta e muscolare. L’ala in posizione bassa era integrata in una fusoliera interamente metallica caratterizzata da linee particolarmente tese e aerodinamiche. La struttura era “raccolta” attorno al possente motore radiale, creando un insieme di rara omogeneità visiva che trasmetteva immediatamente un’impressione di potenza e velocità.
Il sistema propulsivo rappresentava forse l’aspetto più innovativo e problematico del Raiden. Il motore radiale a 14 cilindri era racchiuso in una cappottatura estremamente stretta, progettata per ridurre al minimo la resistenza aerodinamica. Questa soluzione, pur efficace dal punto di vista delle prestazioni pure, creava sfide significative in termini di raffreddamento e manutenzione. Il motore tendeva a surriscaldarsi, particolare gravoso per un intercettore che doveva operare a piena potenza per periodi prolungati.
L’armamento del Raiden evolvette significativamente durante lo sviluppo, riflettendo sia l’esperienza operativa acquisita sia l’evoluzione delle minacce da contrastare. La versione J2M3 montava un armamento misto di cannoni, con i più pesanti Tipo 99 mod. 2 da 20 mm abbinati ai precedenti Tipo 1 a velocità iniziale ridotta. Questa combinazione, pur formidabile sulla carta, presentava problemi pratici significativi: le diverse caratteristiche balistiche dei due tipi di cannone rendevano difficile l’impiego simultaneo efficace, limitando la finestra di ingaggio a distanze molto ridotte. La dotazione di munizioni era di 200 colpi per arma, un quantitativo ragionevole per missioni di intercettazione ma che richiedeva precisione ed economia di fuoco.
L’introduzione successiva di un armamento omogeneo di quattro cannoni da 20 mm tutti del Tipo 2 risolse i problemi di balistica differenziale ma comportò un incremento di peso che penalizzò le prestazioni, particolarmente nelle missioni contro i B-29 Superfortress ad alta quota.
L’autonomia rappresentava uno dei compromessi più evidenti del progetto. Il consumo elevato del potente motore, combinato con lo spazio limitato disponibile per il carburante a causa della configurazione compatta, risultava in un’autonomia ridotta che limitava la flessibilità operativa del velivolo. Questa caratteristica, accettabile per un intercettore di difesa metropolitana, divenne problematica quando il Raiden fu chiamato a operare in contesti diversi da quelli originariamente previsti.
Il risultato complessivo era un velivolo che incarnava una filosofia progettuale specifica e coerente. Il Raiden non era un caccia universale come lo Zero, ma un “specialista” dell’intercettazione, ottimizzato per un compito specifico e disposto a sacrificare altre qualità per eccellere in quello. Questa specializzazione, pur limitandone la versatilità, ne faceva potenzialmente uno degli intercettori più efficaci della sua epoca, quando impiegato nel ruolo per cui era stato concepito.
Affidabilità
La strada verso la maturità operativa del Mitsubishi J2M Raiden fu lastricata di sfide tecniche e problemi di affidabilità che testimoniavano la complessità di un progetto così innovativo e ambizioso. Questi problemi non erano meramente accessori, ma toccavano aspetti fondamentali della sicurezza e dell’efficacia operativa del velivolo.
Uno dei primi e più drammatici problemi emersi riguardava il sistema del carrello d’atterraggio. I primi esemplari operativi rivelarono un difetto potenzialmente letale: il meccanismo del carrello interferiva talvolta con i cavi dei comandi di volo, con conseguenze disastrose. Durante la retrazione del carrello, questa interferenza poteva improvvisamente dare all’aereo un assetto picchiante incontrollabile. Un episodio particolarmente drammatico vide uno dei primi Raiden schiantarsi al suolo immediatamente dopo il decollo, mentre un altro pilota riuscì a salvarsi solo abbassando rapidamente il carrello quando si accorse del comportamento anomalo del velivolo.
Questo problema evidenziava una delle sfide intrinseche della progettazione del Raiden: l’integrazione di sistemi complessi in una cellula estremamente compatta. La ricerca dell’ottimizzazione aerodinamica aveva portato a soluzioni costruttive che, pur efficaci dal punto di vista delle prestazioni, creavano interazioni indesiderate tra componenti diversi del velivolo.
Anche il modello J2M2, che incorporava le lezioni apprese dai prototipi iniziali, continuava a presentare problemi di affidabilità significativi. Il motore, ora dotato di scarichi individuali per ogni cilindro che miglioravano le prestazioni grazie a un migliore sfruttamento della spinta dei gas di scarico, mostrava una tendenza preoccupante a emettere fumo eccessivo. Questo non era solo un problema di visibilità per il pilota, ma anche un indicatore di combustione non ottimale che poteva compromettere l’affidabilità a lungo termine del propulsore.
Un problema ancora più grave era rappresentato dalle vibrazioni intense che affliggevano il velivolo durante il funzionamento. Queste vibrazioni, di entità tale da essere descritte come “fortissime” nei rapporti dei piloti, non erano semplicemente una questione di comfort ma rappresentavano una minaccia strutturale reale. In alcuni casi, le vibrazioni raggiunsero livelli tali da causare la disintegrazione completa di questi pur robusti intercettori, un fenomeno che testimoniava la gravità del problema.
Le cause di queste vibrazioni erano molteplici e interconnesse. La combinazione di un motore molto potente racchiuso in una cappottatura estremamente stretta, unita alle caratteristiche di risonanza della cellula compatta, creava condizioni favorevoli all’insorgere di fenomeni vibratori. L’albero di trasmissione lungo, necessario per collegare il motore all’elica attraverso la configurazione aerodinamica ottimizzata, poteva contribuire a questi problemi trasmettendo e amplificando le vibrazioni del gruppo motopropulsore.
I tentativi di risolvere questi problemi si rivelarono insufficienti. Nonostante gli sforzi continui di ingegneri e tecnici, le modifiche apportate riuscivano ad attenuare ma non eliminare completamente le difficoltà di fondo. Questa situazione rifletteva una realtà comune nello sviluppo di velivoli innovativi: quando si spingono le tecnologie verso i loro limiti, possono emergere problemi imprevisti che richiedono soluzioni altrettanto innovative e che spesso non possono essere risolti con approcci convenzionali.
La persistenza di questi problemi ebbe conseguenze che andavano oltre la semplice affidabilità operativa. La reputazione del Raiden tra i piloti ne risultò compromessa, creando una diffidenza che si sarebbe rivelata difficile da superare anche quando i problemi più gravi furono attenuati. Inoltre, la necessità di dedicare risorse continue alla risoluzione di questi problemi rallentò lo sviluppo di versioni migliorate e limitò la capacità di produzione in serie del velivolo.
Questi problemi di affidabilità rappresentavano il rovescio della medaglia dell’innovazione tecnica del Raiden. L’ambizione di creare un intercettore dalle prestazioni superiori aveva spinto i progettisti verso soluzioni tecniche avanzate, ma ogni innovazione comportava nuovi rischi e nuove possibilità di malfunzionamento. La sfida consisteva nel trovare un equilibrio tra prestazioni avanzate e affidabilità operativa, un equilibrio che il Raiden non riuscì mai completamente a raggiungere durante la sua carriera operativa.
Impiego Operativo
L’ingresso in servizio del Mitsubishi J2M Raiden avvenne in un momento di profonda trasformazione del conflitto nel Pacifico, quando le fortune belliche giapponesi stavano volgendo decisamente al peggio e le priorità strategiche dell’Impero del Sol Levante si stavano rapidamente riorientando dalla conquista alla difesa.
Il velivolo entrò in linea nell’ottobre 1943, in un periodo in cui l’iniziativa strategica era ormai saldamente nelle mani degli Alleati. I sogni espansionistici che avevano caratterizzato i primi anni della guerra stavano lasciando il posto alla dura realtà di un conflitto difensivo che si combatteva sempre più vicino al territorio metropolitano giapponese. In questo contesto, un intercettore specializzato come il Raiden assumeva un’importanza strategica che forse superava anche le intenzioni originali dei suoi progettisti.
Il primo impiego bellico significativo del J2M avvenne durante la battaglia del Mare delle Filippine, nell’estate 1944. Questo scontro, spesso definito il “Grande Tiro al Piccione delle Marianne”, vide la Marina Imperiale Giapponese subire perdite devastanti nelle sue forze aeree imbarcate. Il Raiden partecipò a questi combattimenti operando dalle basi terrestri delle isole Marianne, rappresentando uno dei pochi elementi di forza aerea giapponese ancora in grado di contrastare efficacemente i moderni caccia americani.
Tuttavia, il ruolo più importante e significativo del J2M si sarebbe materializzato nella difesa metropolitana del Giappone. Con l’intensificarsi dei bombardamenti strategici alleati sul territorio giapponese, la necessità di intercettori efficaci divenne pressante. Il Raiden, nonostante i suoi problemi di affidabilità, rappresentava una delle poche risposte credibili alla minaccia rappresentata dai bombardieri nemici, in particolare i temibili B-29 Superfortress.
L’ironia della situazione non sfuggiva agli osservatori più attenti: il Raiden era stato inizialmente messo in ombra dal più versatile e agile Zero, proprio perché nella prima fase della guerra il Giappone era in posizione offensiva e non aveva bisogno di intercettori specializzati a corta autonomia. Ma quando le circostanze cambiarono e la difesa del territorio nazionale divenne prioritaria, le qualità specifiche del J2M si rivelarono improvvisamente preziose.
I vertici della Marina giapponese avevano in realtà già “condannato all’oblio” il Raiden, decidendo di concentrare le risorse su altri progetti come il Kawanishi N1K e il Mitsubishi A7M. Tuttavia, i problemi di sviluppo di questi ultimi velivoli e, soprattutto, l’apparizione dei B-29 nei cieli giapponesi resero immediatamente evidente la necessità di intercettori d’alta quota per assicurare una difesa efficace contro questi formidabili avversari.
Il confronto con le Superfortress rappresentava la sfida più difficile per qualsiasi intercettore dell’epoca. I B-29 volavano ad altitudini elevate, erano pesantemente armati e protetti, e operavano in formazioni numerose scortate da caccia. In questo contesto, il Raiden dimostrò il suo valore grazie ai quattro cannoni da 20 mm, alla velocità, alla robustezza strutturale e alla corazzatura protettiva.
L’impiego del Raiden nella difesa metropolitana rivelò sia i punti di forza sia le limitazioni del progetto. Da un lato, le sue prestazioni di salita e la potenza di fuoco lo rendevano un avversario temibile per i bombardieri. Dall’altro, l’autonomia limitata e i persistenti problemi di affidabilità ne limitavano l’efficacia operativa complessiva.
Un aspetto interessante dell’impiego operativo del J2M fu la decisione di non utilizzarlo mai, apparentemente, in missioni kamikaze. Questa scelta rifletteva probabilmente due considerazioni: la scarsa autonomia del velivolo lo rendeva meno adatto a questo tipo di missioni, e la sua preziosità nei compiti di difesa aerea lo rendeva troppo valido per essere sacrificato in attacchi suicidi.
Il Test di Clark Field
Uno degli episodi più significativi per la comprensione delle reali qualità del Mitsubishi J2M Raiden avvenne nel febbraio 1945, quando le forze americane si impadronirono di un esemplare pressoché intatto nelle vicinanze di Manila, nelle Filippine. Questo evento fortuito avrebbe fornito agli Alleati l’opportunità di valutare oggettivamente le prestazioni di uno dei caccia giapponesi più enigmatici e meno conosciuti dell’epoca.
Il Raiden in questione era miracolosamente scampato alla distruzione rimanendo nascosto tra gli alberi, sfuggendo così al destino di molti altri velivoli giapponesi che erano stati sistematicamente distrutti durante la ritirata. Il recupero e la successiva rimessa in funzione dell’aereo presso la base di Clark Field rappresentarono un’operazione complessa che richiese competenze tecniche notevoli, considerando la specificità dei sistemi giapponesi e la mancanza di documentazione tecnica dettagliata.
Il pilota collaudatore americano incaricato di testare il Raiden catturato fornì una valutazione che si rivelò illuminante e, sotto molti aspetti, sorprendente. Secondo il suo rapporto, l’aereo possedeva le migliori caratteristiche complessive tra tutti i caccia giapponesi che aveva avuto modo di testare fino a quel momento. Questa valutazione assumeva particolare significato considerando che, nel febbraio 1945, gli americani avevano già avuto modo di esaminare diversi tipi di velivoli nipponici catturati.
Gli aspetti negativi identificati durante i test confermavano alcune delle problematiche già note del progetto. I freni si rivelarono molto deboli, un difetto che poteva creare difficoltà nelle operazioni da basi avanzate con piste non ottimali. L’autonomia ridotta, già evidenziata nell’impiego operativo, venne confermata come una limitazione significativa per missioni prolungate. La scarsa affidabilità meccanica, problema persistente durante tutto lo sviluppo del velivolo, emergeva chiaramente anche in condizioni di test controllate.
Tuttavia, i punti di forza identificati dal pilota collaudatore americano dipingevano il quadro di un intercettore dalle qualità eccezionali quando veniva impiegato correttamente. La distanza di decollo risultò essere estremamente ridotta, rispettando appieno le specifiche originali con meno di 300 metri necessari per il decollo. Questa caratteristica rappresentava un vantaggio operativo significativo, specialmente in un contesto bellico dove gli aeroporti erano spesso danneggiati o di dimensioni limitate.
La velocità di salita venne giudicata molto elevata, confermando che i problemi iniziali dei prototipi erano stati almeno parzialmente risolti nelle versioni di produzione. La stabilità del velivolo in volo si rivelò eccellente, così come le prestazioni generali che corrispondevano alle aspettative teoriche del progetto. Particolarmente impressionante risultò la maneggevolezza complessiva, che dimostrava come Horikoshi fosse riuscito a combinare le prestazioni di un intercettore specializzato con qualità di volo soddisfacenti.
Un aspetto tecnico particolarmente interessante emerso dai test riguardava il comportamento dei comandi di volo. Sotto i 500 km/h, i controlli risultavano leggeri ed efficati, offrendo al pilota una buona sensibilità di comando. Al di sopra di questa velocità, però, i controlli diventavano molto pesanti, richiedendo uno sforzo fisico considerevole da parte del pilota. Questo comportamento era tipico di molti caccia dell’epoca che non disponevano di servocomandi, ma nel caso del Raiden risultava particolarmente marcato a causa delle sue prestazioni elevate.
Le caratteristiche di stallo del J2M si rivelarono particolarmente interessanti dal punto di vista del pilotaggio. Come il celebre Focke-Wulf Fw 190 tedesco, il Raiden non forniva preavvisi evidenti dell’approssimarsi dello stallo, un comportamento che poteva cogliere di sorpresa piloti non familiari con il velivolo. Tuttavia, una volta entrato in stallo, l’aereo ne usciva rapidamente e con una perdita di quota limitata, caratteristiche che facilitavano il recupero e riducevano i rischi in combattimento.
Durante le prove di volo manovrato, il Raiden dimostrò l’assenza di tendenze alla perdita di controllo nelle virate strette, una qualità essenziale per un caccia destinato al combattimento aereo. Questa caratteristica, combinata con il comportamento generale in volo, portò il pilota collaudatore a concludere che il “Jack” si comportava molto bene in volo nell’insieme delle sue prestazioni.
La valutazione complessiva del pilota americano fu quella di trovarsi di fronte a un’ottima macchina bellica che aveva raggiunto la maturazione tecnica troppo tardi per influenzare significativamente l’esito del conflitto. Il rapporto produttivo di 22:1 a favore del meno potente Zero evidenziava una delle contraddizioni fondamentali dell’industria aeronautica giapponese: la capacità di progettare velivoli eccellenti ma l’incapacità di produrli in quantità sufficienti quando necessario.
Questo test americano forniva una prospettiva esterna e relativamente obiettiva sulle qualità del Raiden, confermando che, nonostante i suoi problemi, il J2M rappresentava effettivamente uno dei risultati più avanzati dell’ingegneria aeronautica giapponese. La valutazione evidenziava il potenziale del progetto e, contemporaneamente, il tragico spreco rappresentato dal suo sviluppo tardivo e dalla produzione limitata.
Principali varianti del Mitsubishi J2M Raiden
- J2M1: prototipo equipaggiato con motore Mitsubishi MK4C Kasei 13, radiale a 14 cilindri, raffreddato ad aria da 1.400 hp armato con con due mitragliatrici Type 97 da 7.7mm sulla capottatura del motore e due cannoni Type 99 Model II da 20mm montati nelle ali; ne vennero costruiti 8 esemplari
- J2M2 Model 11: motore Mitsubishi MK4R-A Kasei 23a, radiale a 14 cilindri da 1.850 hp, steso armamento del J2M1
- J2M3 Model 21: versione armata con 2 cannoni Type 99 Model II e 2 Type 99 Model I, tutti da 20mm di calibro
- J2M3a Model 21A: versione armata con 4 cannoni Type 99 Model II da 20mm alloggiati nelle ali
- J2M4 Model 32: prototipo con motore Mitsubishi MK4R-C Kasei 23c da 1.820 hp, vennero sperimentate diverse configurazioni dell’armamento, ad esempio provando ad alloggiare in fusoliera un cannone Type 99 Model I da 20mm per sparare verso l’alto e in avanti oppure 2 cannoni Type 99 Model II nello spessore delle ali e altri due Type 99 Model I in gondole subalari
- J2M5 Model 33: versione progettata per l’intercettazione da alta quota, dotata di motore Mitsubishi MK4U-A Kasei 26a da 1.820 hp con compressore meccanico per garantire migliori prestazioni in alta quota, armata con due cannoni Type 99 da 20mm in fusoleriera e altri due Type 99 Model II da 20mm nello spessore alare
- J2M6 Model 31: versione sviluppata prima della J2M4 e J2M5 con abitacolo più largo e tettuccio a goccia migliorata (utilizzata successivamente sul J2M3); costruita a partire dal luglio 1943
- J2M6a Model 31A: versione sviluppata prima della J2M4 e J2M5 e basata sulla J2M3a con abitacolo di dimensioni maggiori e tettuccio a goccia usato a partire dal luglio 1943; ne venne costruito un solo esemplare
- J2M7 Model 23A: versione basata sulla J2M3 con motore Kasei 26a, rimasta allo stadio di progetto
Informazioni aggiuntive
- Nazione: Giappone
- Modello: Mitsubishi J2M3 Raiden
- Costruttore: Mitsubishi Jukogyo K.K.
- Tipo:
- Motore:
Mitsubishi MK4R-A 23a, radiale a 14 cilindri, raffreddato ad aria, da 1.800 HP
- Anno: 1943
- Apertura alare m.: 10.80
- Lunghezza m.: 9.94
- Altezza m.: 3.94
- Peso al decollo Kg.: 3.435
- Velocità massima Km/h: 587 a 5.300 m.
- Quota massima operativa m.: 11.700
- Autonomia Km: 1.900
- Armamento difensivo:
4 cannoni da 20mm
- Equipaggio: 1
- Bibliografia – Riferimenti:
- Enzo Angelucci – Paolo Matricardi: Guida agli aeroplani di tutto il mondo: la Seconda Guerra Mondiale (Mondadori) ISBN: 978-8804313823
- Aviastar
- Planes of Fame
- Vintage Aviation News
- Military Factory